Archivio | giugno, 2014

Leggere il Pistoia Blues?

30 Giu

The Thrill Is…Here! Al di là del titolo che strizza l’occhio alla spettacolarizzazione – strizzatina forzata dato che in ogni caso andiamo a infilare il nostro sguardo dentro a quello che resta pur sempre un evento prima di tutto musicale – l’idea di fare non tanto e non solo una mostra fotografica su 35 anni di Pistoia Blues Festival, ma di usare il medium dell’immagine per tentare di svolgere un’indagine antropologica sul corpo negli eventi pubblici e sulla sua relazione recitata con la fotocamera non è male, anzi è encomiabile.

Quello che però non convince è il passaggio tra l’idea e la realizzazione. Concretamente infatti ci troviamo di fronte a un’esposizione ben fatta, ma che purtroppo tradisce i suoi enunciati. Innanzitutto, questa dinamica del linguaggio dei corpi viene forzata discorsivamente dentro al format comunale di Leggere la città, per cui con disinvoltura si dichiara tout court che lo sguardo del fotografo che indaga i corpi diventa una proposta per leggere anche la città, senza che però si spieghi bene dove stia questa relazione così stretta nel percorso che viene proposto. E’ vero, vediamo luoghi diversi, la piazza dei concerti, il campeggio al parco della rana (malinconia…!) è quello molto meno comfortable di Montesecco, il mercatino in centro e altri scorci ben noti ai pistoiesi (altra questione volendo, la leggibilità del percorso per i forestieri…) ma una vera e propria proposta per leggere la città non viene messa in campo.

Va meglio invece per quanto riguarda l’idea dei corpi recitanti un linguaggio che si auto enfatizza nell’evento pubblico, ancor di più quando il soggetto si accorge di essere guardato, addirittura ritratto. Alcuni scatti accarezzano quest’idea, ce ne danno il senso, ci fanno cogliere questo movimento e questa relazione duale.  Ma forse è solo una fascinazione, dovuta alla lettura all’ingresso della ben fatta introduzione, che fornisce molteplici suggestioni che ci lasciano però con l’amaro in bocca alla fine del percorso. Intendiamoci, il punto non sta in un giudizio qualitativo ed estetico sulle fotografie, ma sulla loro genesi.

Le foto infatti sono state scattate nel corso degli anni per uso giornalistico, di cronaca, dal reporter di un giornale locale. E questa loro condizione di nascita è evidente, e non nascosta, fin da subito. Per la fine degli anni ’90, quando ancora i rotocalchi lavoravano con il bianco e nero, possiamo ammirare delle pregiate scale di grigi, con alcune immagini anche molto belle, come quella del primo piano di una donna non più giovanissima seduta davanti a una tenda, mentre man mano che si avanza con gli anni subentra il colore e alla fine le meraviglie del digitale. Ma il punto sta altrove.

Data la genesi, l’antropologo forza un po’ la mano, forse sollecitato in questo senso, cercando di proporci una selezione che però non è in grado di restituirci le aspettative delle suggestioni iniziali. Quelle che vediamo sono e restano foto di cronaca, qua e là c’è il guizzo del fotografo, l’intuito dell’attimo fuggente alla Cartier-Bresson, il piacere dell’estetica, specie per le immagini di piazza del duomo, ma non quel complesso apparato legato al corpo, alla recitazione e al linguaggio né tantomeno una proposta di lettura della città attraverso il Pistoia Blues. C’è, invece, quello che non ci voleva essere, una mostra su circa 20 anni di Festival, con i suoi vari momenti, spazi e mutazioni. Fotografia documentaria dunque, cronaca, e non può essere altrimenti dato che le foto per quello erano state pensate e fatte.

Alla fine al visitatore, specie se cittadino o comunque frequentatore assiduo del Festival, resta il piacere di aver rivissuto con la memoria dei momenti di questi anni, ma forse non avrebbe guastato provare ad avere più coraggio, prendere spunto da quest’idea per lanciare una vera e propria indagine sulla riga di quella che viene spiegata all’ingresso, in modo tale che il futuro o i futuri fotografi potessero cimentarsi, a partire dalle prossime settimane, con un’idea, un’indagine e una sfida che resta intrigante.

Mutazioni nel tempo precario

22 Giu

IMG_7923Nella mole di discussioni che circolano su quel fenomeno sociale vissuto individualmente che va sotto il nome di “precarietà” (lavorativa > esistenziale), un dibattito che ha travalicato da tempo i confini dell’economia e della politica per impattare sulle scienze umane e sociali, sulla letteratura e le arti, negli ultimi tempi mi è capitato di leggere, tra le altre, due osservazioni a loro modo interessanti.

La prima è di Guy Standing, nel suo Precari, la nuova classe esplosiva, e riguarda l’essere multitasking. In parole povere, Standing sostiene che dentro al fenomeno ci sia anche questo sottofenomeno, con le sue inevitabili ricadute. L’abitudine contratta a occuparsi di cose diverse, strabordata nella vita quotidiana, mixata con l’abnorme massa di tentazioni/informazioni del web 2.0 (dentro a cui possiamo inscrivere anche un blog come questo), ha portato a questa che è più una non capacità, o una dis-capacità, che una capacità vera e propria. Occuparsi contemporaneamente di cose diversissime, come avere appunto le famose file di finestre e icone aperte sul desktop del nostro computer, il lavorare come si dice in gergo in “modalità multitasking”, non valorizza l’individuo, non li apre nuove porte, ma al contrario disabitua al pensiero riflessivo. Non abbiamo più l’agio del tempo lungo per pensare, fermarci, riflettere, meditare. Ogni informazione viene digerita a velocità incredibili, si sommano in tempi brevissimi, non siamo in grado di elaborarle appieno. Ne abbiamo solo l’illusione. E le conseguenze sul lungo periodo saranno visibili in una società dove perderemo la capacità del pensiero riflessivo, dell’esercizio del discorso (non tutti, ovviamente, ci sarà sempre chi potrà “permetterselo”). La cosa mi ha intrigato perché mi sono sentito subito vittima a mia volta di questo sottofenomeno. E’ vero, quando passo troppo tempo sui social, quando rincorro tutte le informazioni che trovo nelle mailing list, quando rincorro ogni link, dopo un po’ comincio ad avere la sensazione di un’indigestione e di stare perdendo la concentrazione. Sono guarda caso i momenti in cui torno sui tomi, quelli di carta, in cui la parola d’ordine è “calma”, in cui la noiosa lettura dei libri ridiventa necessaria per trovare un equilibrio, e nei quali mi vengono poi le sensazioni e idee migliori.

La seconda osservazione l’ho invece incrociata, ironicamente, proprio in una di queste mailing list. Una recensione al libro di Sebastiano Benasso, Generazione Shuffle, traiettorie biografiche tra reversibilità e progetto, scritta su Alfabeta2 da Alessandra Corbetta. Qui si parla del venir meno dei grandi modelli dentro cui inscrivere le nostre vite, che in pratica vuol dire il venire meno della stabilità insieme a quei grandi raggruppamenti socio-identitari del passato, che portano i precari a vivere vite diverse da quel che ci si aspetta. Ovvio. Ora però qui si vuol dire anche che il non raggiungimento degli obbiettivi per fase degli attuali TQ non sia dovuto al loro essere bamboccioni, sdraiati, soggetti mancanti di entusiasmo e auto-imprenditorialità, ma sia proprio rispondente a quel contesto mutato dalla precarietà per cui gli obbiettivi per fase (studi, lavoro, autonomia abitativa, matrimonio, figli…) mutano essi stessi, cessando di esistere quelli classici. Ve ne saranno di nuovi? Su questo la recensione, e credo anche il volume, non si esprimono. Però mettono fuori un altro discorso, che è stato il punctum che mi ha colpito. Dato che i modelli non ci sono più ma sono tuttavia ancora un punto di riferimento culturale – ed i TQ sono cresciuti vivendo il trauma di aspettarsi una vita sullo stile di quella dei genitori per poi ritrovarsi altrove senza saper bene come ci sono arrivati e cosa ci fanno – il soggetto, privato della possibilità di costruirsi un percorso coerente dalla partenza (ma è veramente mai esistita questa possibilità?) se ne crea uno a posteriori, cioè rilegge coerentemente le casualità attraversate nel proprio percorso di vita per dare una lettura logica che spieghi dove è arrivato, ma che in origine non c’era essendo tali eventi frutto del caso che impera nella età della precarietà. Questo cambio di punto di osservazione, non più dal fondo ma dal mezzo . dove, sia detto per inciso, sono anche io – mi pare la cosa più interessante e degna di nota. La precarietà sta mutando il nostro modo di costruire, pensare, leggere e raccontare le nostra storia di vita. Abbiamo bisogno di spiegazioni coerenti per sapere chi siamo e costruire le future strategie adattative. Operazione necessaria e alla portata di tutti, a meno di non essere il musiliano uomo senza qualità.IMG_9184

Tra l’altro, in questi giorni a lavoro ho avuto modo di fare una lunga chiacchierata con uno stagista appena diciottenne, che mi chiedeva di tutto: la storia, la politica, l’università… A un certo punto, incuriosito, ho provato a chiedere io a lui come vedeva il suo futuro. Volevo capire se per loro la visione è mutata, se si aspettano di vivere precari tutta la vita, e quindi come si preparano a quest’esistenza. La risposta è stata: metà di noi vogliono andar via dall’Italia, l’altra metà no… ok, non ha capito la domanda, o ancora l’evidenza si deve palesare davanti agli occhi di questa generazione a cui nessuno a promesso nulla, perlomeno (Grillo e Renzi esclusi).

Quindi, riassumendo, stiamo perdendo la capacità al pensiero riflessivo e al tempo stesso stiamo forzando l’interpretazione delle nostre storie individuali dentro percorsi coerenti ma probabilmente falsi. Le due cose hanno un nesso. Ecco, credo che sia giunta l’ora di cominciare seriamente a parlare di come la precarietà stia influenzando le nostre vite, le nostre soggettività, a partire proprio da come ci muta dentro, non solo nel mondo delle relazioni e dei bisogni, ma nella nostra testa.