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Leggere il Pistoia Blues?

30 Giu

The Thrill Is…Here! Al di là del titolo che strizza l’occhio alla spettacolarizzazione – strizzatina forzata dato che in ogni caso andiamo a infilare il nostro sguardo dentro a quello che resta pur sempre un evento prima di tutto musicale – l’idea di fare non tanto e non solo una mostra fotografica su 35 anni di Pistoia Blues Festival, ma di usare il medium dell’immagine per tentare di svolgere un’indagine antropologica sul corpo negli eventi pubblici e sulla sua relazione recitata con la fotocamera non è male, anzi è encomiabile.

Quello che però non convince è il passaggio tra l’idea e la realizzazione. Concretamente infatti ci troviamo di fronte a un’esposizione ben fatta, ma che purtroppo tradisce i suoi enunciati. Innanzitutto, questa dinamica del linguaggio dei corpi viene forzata discorsivamente dentro al format comunale di Leggere la città, per cui con disinvoltura si dichiara tout court che lo sguardo del fotografo che indaga i corpi diventa una proposta per leggere anche la città, senza che però si spieghi bene dove stia questa relazione così stretta nel percorso che viene proposto. E’ vero, vediamo luoghi diversi, la piazza dei concerti, il campeggio al parco della rana (malinconia…!) è quello molto meno comfortable di Montesecco, il mercatino in centro e altri scorci ben noti ai pistoiesi (altra questione volendo, la leggibilità del percorso per i forestieri…) ma una vera e propria proposta per leggere la città non viene messa in campo.

Va meglio invece per quanto riguarda l’idea dei corpi recitanti un linguaggio che si auto enfatizza nell’evento pubblico, ancor di più quando il soggetto si accorge di essere guardato, addirittura ritratto. Alcuni scatti accarezzano quest’idea, ce ne danno il senso, ci fanno cogliere questo movimento e questa relazione duale.  Ma forse è solo una fascinazione, dovuta alla lettura all’ingresso della ben fatta introduzione, che fornisce molteplici suggestioni che ci lasciano però con l’amaro in bocca alla fine del percorso. Intendiamoci, il punto non sta in un giudizio qualitativo ed estetico sulle fotografie, ma sulla loro genesi.

Le foto infatti sono state scattate nel corso degli anni per uso giornalistico, di cronaca, dal reporter di un giornale locale. E questa loro condizione di nascita è evidente, e non nascosta, fin da subito. Per la fine degli anni ’90, quando ancora i rotocalchi lavoravano con il bianco e nero, possiamo ammirare delle pregiate scale di grigi, con alcune immagini anche molto belle, come quella del primo piano di una donna non più giovanissima seduta davanti a una tenda, mentre man mano che si avanza con gli anni subentra il colore e alla fine le meraviglie del digitale. Ma il punto sta altrove.

Data la genesi, l’antropologo forza un po’ la mano, forse sollecitato in questo senso, cercando di proporci una selezione che però non è in grado di restituirci le aspettative delle suggestioni iniziali. Quelle che vediamo sono e restano foto di cronaca, qua e là c’è il guizzo del fotografo, l’intuito dell’attimo fuggente alla Cartier-Bresson, il piacere dell’estetica, specie per le immagini di piazza del duomo, ma non quel complesso apparato legato al corpo, alla recitazione e al linguaggio né tantomeno una proposta di lettura della città attraverso il Pistoia Blues. C’è, invece, quello che non ci voleva essere, una mostra su circa 20 anni di Festival, con i suoi vari momenti, spazi e mutazioni. Fotografia documentaria dunque, cronaca, e non può essere altrimenti dato che le foto per quello erano state pensate e fatte.

Alla fine al visitatore, specie se cittadino o comunque frequentatore assiduo del Festival, resta il piacere di aver rivissuto con la memoria dei momenti di questi anni, ma forse non avrebbe guastato provare ad avere più coraggio, prendere spunto da quest’idea per lanciare una vera e propria indagine sulla riga di quella che viene spiegata all’ingresso, in modo tale che il futuro o i futuri fotografi potessero cimentarsi, a partire dalle prossime settimane, con un’idea, un’indagine e una sfida che resta intrigante.