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Precariousness – un work in progress di insinuazione

1 Apr

thessalonikiMilan Kundera sostiene che, tra i vari momenti magici che si incontrano nella vita, un posto vada riservato al momento “in cui un uomo sceglie quello che sarà il suo mestiere”. Una scelta di capitale importanza anche per sapere chi siamo. Il non compierla, o l’essere impossibilitati a compierla, ci porterebbe inevitabilmente ad assaggiare il “presentimento“ di “ritrovarsi da solo su un binario dal quale tutti i treni erano ormai partiti”.

Anche Primo Levi si arrovella in molte occasioni sul rapporto tra l’uomo e il proprio lavoro, con tutta la consapevolezza che riusciva a derivare dall’essere stato meno di uno schiavo, costretto a un lavoro il cui fine era la sua morte. Si divertì in diversi romanzi a osservare le persone al lavoro, e ne concluse che il lavoro si legava alla libertà, è che probabilmente la libertà più accessibile, goduta e utile alla società era quella di riuscire a svolgere con competenza il proprio lavoro “e quindi nel provare piacere a svolgerlo”.

Più di recente Tzevtan Todorov, discutendo intorno alla democrazia, arriva a dire, riprendendo Friedrich A. Von Hayek, che privando i cittadini dell’autonomia economica si condannano alla schiavitù politica, ma l’economia non può e non deve dominare la vita sociale, perché gli uomini sarebbero condannati lo stesso. E l’esigenza di flessibilità fa perdere di vista la competenza, quella competenza che come diceva Levi si lega così tanto alla nostra libertà. Todorov alla fine scrive che “uno degli effetti della flessibilità è che ne risulta indebolita la rete sociale costituita giorno dopo giorno e con essa l’identità stessa dell’individuo”.

Oggi per noi le parole flessibilità e precarietà sono divenute sinonime. Forse perché la flessibilità fa venire in mente l’immagine di un elastico, un’elasticità che in quanto tale si contrappone alla stabilità, e che ci rimanda dritti al senso di precarietà. Un senso che però acquista anche una concretezza materiale.  Essere “precari” è dunque al tempo stesso sia una sensazione che una condizione. La condizione viene spesso chiamata in causa per parlare di lavoro, di contratti, di mercato del lavoro, di esigenze economiche delle imprese (ma qui si preferisce parlare di flessibilità). Ma la condizione ha due facce, una inscritta nei meccanismi del diritto del lavoro e dell’organizzazione della produzione, l’altra nella vita. In questa seconda faccia la condizione si ricongiunge con la sensazione.

Beninteso, tutti noi siamo precari sulla terra, il tempo che abbiamo a disposizione non è eterno (e forse sarebbe anche noioso), ma ha una scadenza naturale. Proprio per questo, per la chiara consapevolezza di essere precari in natura, gli uomini e le donne anelano alla stabilità, alle certezze. Ce ne sono molte, la fede, l’impegno ecc… e c’è il lavoro, sia come mezzo di realizzazione del sé sia come mezzo di sostentamento quotidiano. Perciò rendere un individuo “precario”, nel senso corrente del termine, è privarlo delle certezze sul lavoro, attraverso meccanismi organizzativi e legislativi. Il risultato sono persone alle quali è negato l’accesso a quella libertà che è la realizzazione di se stessi, a cui si sottrae la progettualità, lasciate appese ad una sorta di meteo bizzaro, che un  giorno mette sole e quello dopo pioggia, ma spesso nebbia. Non è un caso se tutti i racconti della “precarietà” parlano delle condizioni di vita, prima che di quelle di lavoro, e con più enfasi.

Precariousness prova timidamente a confrontarsi con quest’universo, a insinuare immagini-sensazione sul senso di essere appesi a qualcosa che non controlliamo, sul tempo che scade lasciandoci su un binario vuoto e sulla maschera che indossiamo ad ogni cambio di lavoro, di professionalità, tipico della vita di ogni “precario”. Un’insinuazione che vuol suggerire anche che con la precarietà non siamo del tutto liberi nelle nostre scelte, e quindi siamo schiavi, appesi ma anche legati.